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L'antipatica che sfondò il soffitto di vetro

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Sarà arrivato finalmente il momento di Margaret Bourke-White?

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Margaret Bourke-White al lavoro in cima al grattacielo Chrysler, New York City, 1934 © Oscar Graubner Courtesy Estate of Margaret Bourke White

Sì, lei, la grande antipatica, che alla fine si è trovata splendida e sola, ammirata ma non amata, celebrata ma non adorata, e anche un po’ maltrattata, perché alla fine quella sua fama scostante le è costata molto, nel ricordo dei posteri.

Per usare il gioco di parole della mostra milanese e del libro che le sono dedicati in queste settimane: aver voluto essere, a tutti i costi, una primadonna, le è costato il riconoscimento di essere stata la prima donna, o almeno una delle primissime, già negli anni Trenta, a sfondare il soffitto di vetro più duro di una lente da teleobiettivo, e diventare una fotoreporter di successo in un mondo di occhi maschili.

No, non gliel’hanno davvero riconosciuto, questo fatto, neppure le donne. Che hanno issato altre icone femministe nel wall of fame del fotografico. Tina Modotti, o Gerda Taro, o Lee Miller. Fotografe attorno a cui splende un’aura di fascino, eroismo, idealismo che ha prodotto romanzi, biografie a non finire, mostre e omaggi appassionati.

Ma poi, vogliamo essere sinceri? Sulla creazione attorno a quelle tre sue contemporanee di una mitologia che confonde volentieri la biografia e l’opera ha pesato molto uno sguardo maschile: quello degli uomini con cui condivisero parte della loro vita, amore e professione: Edward Weston, Robert Capa, Man Ray, attraverso le cui immagini altri sguardi maschili si posarono sui loro volti e corpi.

Il merito di Modotti, Taro e Miller è stato semmai di essere state grandissime fotografe nonostante e a prescindere da quegli sguardi che oggi la rivolta #MeToo attaccherebbe col vetriolo.

Bourke-White, no: non ebbe un mentore maschio, non ebbe un pigmalione, non fu divinizzata o glamourizzata da nessuno. Qualcuno di noi maschi dirà perfidamente: perché era meno bella. Credo di no: perché lei era così, fin dall’inizio. Un caterpillar (e la definizione non è mia: se la portò dietro tutta la vita).

Una donna che sapeva dove voleva e poteva arrivare. E per arrivarci usò tutti i mezzi che aveva a disposizione, tranne uno: non fece mai leva sul suo essere una donna, o meglio: sulle armi e le prerogative che un mondo maschile sembra attribuire alle donne: la fragilità, la seduzione.

Non facciamoci ingannare da un po’ di aneddotica. I suoi abiti chiassosi, come quel cappotto rossissimo, “un assoluto di rosso”, che le attirò le ironie di due colleghi maschi molto concerned (lo scrittore James Agee e il fotografo Walker Evans), o quelle parure di colori perfettamente coordinati tra sciarpa, cappello, gonna, guanti e panno per pulire le lenti della macchina fotografica che fecero sorridere molti.

Quella eleganza vistosa ed eccentrica era marketing, così come l’ufficio di prestigio all’attico del Chrysler Building, e come i due coccodrilli che ci allevava dentro. Era il suo modo di bucare lo schermo di invisibilità che circondava le donne che volevano farcela da sole, senza cominciare all’ombra di un uomo.

53B2A5EF-1208-4E6A-BEE7-6B41034D95C7Lei così fece, da sola, innamorata del paesaggio industriale, affrontando il calore degli altiforni che le bruciava le sopracciglia e scioglieva la custodia della sua fotocamera economica, una imitazione di Graflex con una lente crepata, respirando monossido di carbonio a pieni polmoni per produrre documentari sulle acciaierie che neanche gli uomini avevano osato.

Quando Henry Luce, che l’aveva già assoldata per Fortune, le riservò la copertina del primo numero di Life, qualcuno poté forse criticare quella immagine (dall’inquadratura, per me almeno, non poi così impeccabile), ma non certo dire che le era stata fatta una galanteria.

Sì, antipatica, può darsi. Come chi deve cavarsela da sola. “Più realista del re”, scrivono Sara Antonelli e Alessandra Mauro nell’introduzione alla sua autobiografia che (per dirla come Franca Valeri) non sarà bugiarda ma, diciamo, reticente.

La biografia di una donna che non ritenne di dover mettere in discussione i ruoli di genere, ma si insinuò come un cuneo nelle loro crepe.

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Margaret Bourke-White: Buchenwald, 1945. ©Images by Margaret Bourke-White. 1945 The Picture Collection Inc. All rights reserved

Non fu un traguardo femminista ottenere che cucissero solo per lei la prima divisa femminile dell’esercito americano: fu la sua personale irruzione in un recinto maschile.

Il suo sorriso in tuta da aviatore non rassicura sulla parità dei sessi, ma è un marameo: non l’avreste detto eh, ma sono qui.

Che poi fu il suo atteggiamento nei confronti del suo mestiere, e anche della vita, non solo della questione maschile/femminile. Le biografie riferiscono di quanto poco scrupolo avesse nel disporre cose e persone davanti al suo obiettivo nel modo più eloquente, con lusinghe o minacce e qualche urlo imperioso.

In Italia, sul fronte di Cassino, si trovò addirittura a dare gli ordini di fuoco a una batteria di artiglieri al posto del comandante, per cogliere il proiettile da 155 mm nel momento esatto in cui veniva sparato.

Pronta a tutto per una buona foto. “Siamo moralisti cinici” diceva quando raccontava del suo reportage, anche quello passato alla storia, sulla liberazione del campo nazista di Buchenwald: “Lavorare con la macchina fotografica mi dava quasi sollievo. Sono spesso costretta a lavorare con la mente coperta da un velo. In quell’occasione, poi, il velo protettivo fu tanto efficace che quasi non seppi cosa avevo ripreso finché non vidi i negativi sviluppati. Mi parve allora di osservare quelle atrocità per la prima volta”. Dobbiamo crederle? Ma è poi importante cosa avesse nel’animo l’autrice delle foto che ci hanno sconvolto e formato?

Sì, certo, Gerda, Tina, Lee erano rivoluzionarie e intellettuali. Margaret no, non riusciamo bene a sapere cosa pensasse della politica (anche se fece un ritratto gratis al leader comunista americano Earl Browder, collaborò col rotocalco comunista New Masses e si iscrisse alla Photo League sciolta poi dal maccartismo).

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Margaret Bourke-White: Louis Ville, Kentucky, 1937. ©Images by Margaret Bourke-White. 1937 The Picture Collection Inc. All rights reserved

La sua biografia rilascia affermazioni idealiste, ma le autobiografie sono così, devono dare il profilo migliore.

Vero anche che, quando si accorse che fare solo fotografie di impianti industriali, che sapeva rendere così imponenti, rischiava di farla apparire un po’ troppo dalla parte dei padroni, andò dannunzianamente verso la vita proletaria: e assieme allo scrittore Erskine Caldwell, che divenne poi suo marito, batté sul tempo tutti i colleghi e realizzò il primo fotolibro epico sull’America dopo la Grande Depressione, You Have Seen Their Faces.

Forse per questo Agee ed Evans, che riuscirono a pubblicare il loro Let Us Now Praise Famous Men solo nel 1941, se la legarono al dito.

Ma anche Dorothea Lange, una donna, che arrivò seconda col suo American Exodus, alluse al fatto che Bourke-White e Caldwell scrivevano, sotto le loro foto di contadini e migranti, didascalie che rappresentavano non le storie vere della povera gente, ma le idee dei due autori su quello che avrebbero potuto o dovuto dire.

Forse Bourke-White era solo più sincera, o consapevole, nel riconoscere che la fotografia, dietro la sua ostentazione di medium della realtà, era già allora una potente fabbrica di retorica. In senso proprio: di artifici linguistici che danno uno spessore al linguaggio.

Documentare era una preoccupazione non primaria per tutto il fotogiornalismo di quell’epoca nascente: la prima era trasmettere un’idea, un giudizio, una sensazione.

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Margaret Bourke-White; Gandhi, Pune, 1946. ©Images by Margaret Bourke-White. 1946 The Picture Collection Inc. All rights reserved;

Non per forza l’opinione personale del fotografo. Il ritratto oggi iconico che fece a Gandhi all’arcolaio (dopo essere stata costretta, l’aneddoto è strafamoso, a imparare lei stessa a filare) è un capolavoro di ieraticità ed equilibrio simbolico. È possibile che l’incontro col Mahatma (nel film di Attenborough, Lei ha il volto più hollywoodiano di Candice Bergen) sia stato davvero significativo per Bourke-White, che pure non gli risparmia nei ricordi qualche ironia.

E tuttavia, trovandosi per volontà del caso vicino a Birla House il giorno dell’assassinio del grande nonviolento, riuscendo a farsi ammettere sul luogo dell’omicidio (Cartier-Bresson rimase fuori, costretto a fotografare dalla cancellata), violò senza esitazione la richiesta di non fotografare, fu scacciata in malo modo, tentò di intrufolarsi ancora, fu cacciata di nuovo. Qualsiasi cosa per una buona foto (ma quella volta non le ebbe: riuscirono a portarle via i rullini).

92356155-C655-44AD-A3A1-92723FA1BD8CNon mollava mai: prima fotografa americana a realizzare un reportage in Urss (sì, prima di Capa e di Cartier-Bresson), rubò a Stalin l’unico ritratto in cui il “paparino” accenna un vago sorriso (rideva di lei che aveva appena fatto cadere la macchina, meglio così, no?).

Diceva che il suo sogno era fare un ritratto a Mosé. Mai porsi obiettivi troppo bassi.

Sì, la primadonna fu in tante cose la prima donna, e a volte la prima e basta, anche rispetto ai colleghi maschi che, scavalcati, reagivano giustificandosi per il buco con le loro redazioni con la più eternamente maschile delle scuse: “Lei usa armi che noi maschi non possediamo".

È troppo pensare che, anche se non lo ammise mai, quella donna coi pantaloni in fondo si sentisse prima, donna? Quando riscopriranno, le femministe, quella sua ruvida ma implacabile voglia di travolgere il grande muro del genere, semplicemente ignorandolo?

Solo il morbo di Parkinson, negli ultimi vent'anni di vita, ebbe ragione della volontà di ferro di Margaret. Da tempo si dedicava a una passione solo apparentemente antitetica alla fotografia: la cucina. In fondo, è sempre questione di ingredienti giusti.

Scrisse nelle ultime memorie: "Mi piace fare il mio lavoro senza mentire. Ma ho imparato che dire la verità non è dire tutta la verità”. Dobbiamo crederle?


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